Trees of Mint, Micro Meadow (Here I Stay)

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Micro Meadow è un disco di brume leggere, di malinconie color pastello, di sospensioni e dilatazioni. Con una voce appena sussurrata e pennellate di chitarra decise, ma mai troppo accese. Un disco che può anche indugiare su ritmi più sostenuti (come in Today Polaroid, piccola potenziale hit indie) ma sempre in maniera discreta, con una delicatezza di fondo che abbraccia l’album intero. Micro Meadow è il primo disco di Trees of Mint, duo sardo dislocato tra Cagliari e Bologna uscito in questi giorni su Here I Stay Records. Sia detto subito: un bel disco, con diversi pezzi molto riusciti e soprattutto con un’idea di suono decisamente matura, in cui la complessità degli intrecci chitarristici non fa mai perdere di vista la semplicità e la bellezza, immediatamente riconoscibile, delle canzoni. Un suono che però è anche evocativo di colori e di odori, a partire dalla sigla scelta, “alberi di menta”. “Trees of Mint è una sinestesia, esprime un odore, un sapore, un colore. Non esprime un concetto, ma è legato a suggestioni. Credo che sia molto adatto ai pezzi che faccio”, racconta Francesco Serra, chitarrista ventisettenne cagliaritano di stanza a Bologna, titolare del progetto accompagnato alla batteria da Andrea Siddu (anche con i Plasma Expander).
Un po’ di notizie biografiche. Trees of Mint nasce nel 1999, dopo una militanza di quattro anni nei Virus in Pachyderm, band noise cagliaritana. “Il progetto è nato quando ho cominciato a suonare dei pezzi per conto mio, che non rientravano più in sonorità noise alla Sonic Youth – spiega Serra -. Il fatto di suonare la chitarra in casa a volumi più bassi mi ha portato quasi naturalmente su toni più intimi. E poi ho imparato ad ascoltare di più il mio strumento”. Tra il 2000 e il 2003 ha pubblicato due demo, uno omonimo e l’altro intitolato Songs from Drawers. “L’atmosfera dei primi demo che ho realizzato è molto più cupa, introspettiva. Il nuovo disco invece cerca maggiormente il contatto, è più comunicativo. Alcuni pezzi ho voluto recuperarli perché pensavo fosse un peccato non registrarli con un suono migliore di quanto non fosse nei demo”, dice. Non a caso i pezzi recuperati dai demo sono più lunghi, molto più introversi e segnano uno stacco forte rispetto all’atmosfera dei primi brani, più leggera, a tratti briosa, senza però abbandonare quella malinconia di fondo che abbraccia l’album intero. “È una scelta voluta – dice – volevo dare l’idea di uno stacco, un’idea di circoscritto e provvisorio”. Ma certo è vero che i pezzi che rimangono attaccati addosso fin dai primissimi ascolti sono quelli della prima parte, come After All o Stick Jaw o Today Polaroid o Window Seat, cioè dei brani che dimostrano una maggiore capacità di sintesi anche, in un certo senso, pop del suo suono. Quella di Trees of Mint comunque è un’estetica musicale molto personale e meditata, che sta – a voler ragionare su possibili influenze – tra certo cantautorato americano più introspettivo (Smog su tutti) ai maestri del lento (Low) o ancora può evocare scenari distesi alla Dirty Three. “Più di tutto però credo che mi abbia influenzato il cinema, ha stimolato il mio immaginario. Del resto io attribuisco alla musica un carattere visivo”. at, pubblicato oggi ne Il Sardegna

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